Qualunque sia il motivo, noi tendiamo a stare insieme, ad aggregarci, a far parte di un gruppo. E questo è coeso quando i propri membri sentono di appartenervi, cuore e testa. Sentono di assomigliarsi, si danno un supporto reciproco, condividono esperienze ed emozioni ma anche regole e responsabilità. Il senso di appartenenza è la marcia in più, la vera forza del gruppo, quel tutto che diventa più della somma dei singoli elementi. Il risultato è qualcosa di incredibile. A volte perfino magico. Pietro Figlioli, attaccante della Pro Recco e capitano del Settebello, ci rivela lo spirito di un gruppo e quella magia che ha portato la nostra pallanuoto nuovamente sul tetto del mondo.
“Sono nato in Brasile da un padre che è stato un famoso nuotatore e che ha partecipato tre volte alle Olimpiadi. Un paese che ho visto molto poco dato che, a soli tre anni, ci siamo trasferiti in Australia. Mio padre, che era lì per un incontro fra master, si innamorò di quel paese e chiamò mia madre per raggiungerlo. Sono cresciuto nelle spiagge di Brisbane, dove i ragazzi solcavano le onde con la tavola da surf. La mia passione, invece, era nuotare. L’acqua è sempre stata nel mio DNA. Ed affrontavo le alte onde australiane superandole a nuoto. Iniziando a sviluppare quella forza e quella velocità che sono diventati uno dei miei punti di forza.“
“Ho fatto nuoto agonistico fino ai 12 anni per poi lasciare e ricominciare a nuotare in piscina solo a 15 anni. Quando ho iniziato a giocare in un club a pallanuoto. In Australia era uno sport poco conosciuto, che si giocava ad un livello dilettantistico. Ci saranno state 12-13 squadre in tutto che disputavano un campionato solo nei tre mesi estivi. I giocatori pagano per iscrizioni, allenamenti, viaggi e le sedute in piscina erano due volte la settimana. La mia prima squadra fu il West Sidney. Io all’epoca abitavo a Camberra, in un centro sportivo, dove era riunita la nazionale U20. Al sabato si andava a Sidney per disputare la partita con i club con cui giocavamo. Tre ore di macchina per andare e tre per tornare. I nostri compagni li vedevamo solo il tempo dell’incontro.”
“Sono rimasto nella nazionale australiana fino al 2009, con cui ho partecipato anche due Olimpiadi, Atene e Pechino. Ma il mio sogno era andare in Europa nel poter crescere nella mia passione. Nel 2003 arrivai nel Barcellona con cui vinsi subito il campionato spagnolo e la Coppa Len. L’anno dopo ebbi l’occasione di venire in Italia, il paese dei miei bisnonni, dove la pallanuoto è sempre stata a grandissimi livelli e dove vedevo la possibilità di poter coronare le mie aspirazioni avendo la possibilità di avere la cittadinanza e aspirare ad entrare nel Settebello.”
“Dopo due anni al Chiavari, mi resi conto che era venuto il momento del grande salto. Avevo bisogno di una squadra in cui potessi crescere per arrivare ai massimi livelli. Presi io direttamente l’iniziativa per propormi. Chiamai Massimiliano Ferretti, all’epoca direttore sportivo della Pro Recco. Vedevo sempre che la qualità dei giocatori e del gioco della Recco era altissima. Il mio sogno era entrare in quella squadra. Anche semplicemente avere la possibilità di potermi allenare con loro avrebbe significato fare una grande esperienza. La mia intraprendenza mi premiò e cambiò radicalmente il mio futuro nella pallanuoto e nella mia vita.“
“Era il 2006 e Pino Porzio, all’epoca allenatore della Pro Recco, mi prese in squadra. Mi ritrovai a palleggiare con atleti del calibro di Alberto Angelini, Tamas Kasas, Leonardo Sottani, Vladimir Vujasinović, Alessandro Calcaterra, Stefano Tempesti. Era una squadra incredibile. Poi c’erano altri giovani con me, come Massimo Giacoppo e Goran Fiorentini. Un ambiente dove non si poteva non crescere se una persona aveva la voglia e la testa giusta da professionista. Ma in cui c’era anche tantissima competizione fra di noi, per emergere e poter giocare. Un anno fantastico che ci portò alla conquista del grande slam: scudetto, Coppa Italia, Eurolega e Supercoppa Europea.”
“Il 2009 è stato l’anno in cui ho avuto la cittadinanza italiana che ha segnato l’ingresso nel Settebello. Quel sogno per cui avevo tanto combattuto, sofferto, sacrificato, lavorato era stato raggiunto. Su cui il mio impegno è sempre stato totale. Un argento e un bronzo agli europei, idem nelle partecipazioni alle olimpiadi di Londra nel 2012 e Rio nel 2016. E, soprattutto, i due ori ai mondiali di Shangai nel 2011 e Gwangju nel 2019. Con un mio piccolo record: due finali raggiunte e due vittorie. Primato che condivido con altri due compagni con cui ci siamo ritrovati nel gradino più alto dopo otto anni: Matteo Aicardi e Niccolò Figari.”
“Una partita, quella con la Spagna dell’ultima finale, che ho vissuto in maniera molto particolare. Come sempre Sandro Campagna ci aveva dato l’appuntamento per la riunione pre-partita. Il clima era molto sereno. Non avevamo l’ansia di dover staccare la qualificazione olimpica come avevo già vissuto nel 2016, un anno tremendo, pieno di pressioni, Con una qualificazione a Rio arrivata all’ultima chance, con la partita contro la Romania. Eravamo tutti sollevati da quell’ansia. Comunque eravamo lì per vincere un mondiale non per partecipare. Facciamo il riscaldamento, gli arbitri ci chiamano e usciamo tutti nella galleria.”
“Già, il quel momento, ho avuto netta la sensazione che eravamo tutti presenti, ben collegati. Avevo un sorriso grandissimo, non so neanche a cosa paragonarlo, sembravo scemo. Pensavo che se qualcuno mi avesse guardato avrebbe detto: «Ma cos’ha da ridere questo?». Invece ero sereno, tranquillo. Abbiamo fatto le presentazioni delle squadre sempre portandomi dietro questo sorriso gigante. Tranne nel momento in cui abbiamo stretto la mano agli avversari, in cui ho messo la faccia da partita. Ci tuffiamo in acqua, ci mettiamo davanti alla porta a fare il nostro saluto. E’, a questo punto, che si richiama normalmente ciò che ha detto il mister. Le varie tattiche, gli schemi. Ma non quella volta.”
“Mi sono rivolto ai miei compagni dicendo solo questo: «Ragazzi siamo qui, in una finale di coppa del mondo. Non capita molto spesso nella vita. Sfruttiamo questa possibilità. Sappiamo già quello che dobbiamo fare. L’unica cosa che vi chiedo e che vorrei sentire il nostro inno nazionale ancora una volta». E basta. Li abbiamo distrutti. Abbiamo giocato molto bene la finale ed è stato molto bravo il mister a capire il loro gioco. Sandro ci aveva spiegato tutto nei minimi particolari: «Se loro fanno così, noi facciamo così». Sembrava che avesse già visto la partita e facevamo esattamente quello che dovevamo. Nell’incontro il numero di espulsione è stato a loro favore. Nonostante questo, abbiamo difeso veramente in modo eccezionale.”
“Da capitano non si è qualcosa di più. Siamo una squadra in toto, si vince e si perde insieme. Godendo della vittoria o soffrendo per la sconfitta. Ma sempre insieme. E’ stato bellissimo anche perché, insieme con Matteo Aicardi e Niccolò Figari, siamo gli unici nella storia della pallanuoto italiana ad aver vinto due mondiali da giocatori. Vincerlo a 35 anni è stata una soddisfazione in più, per tutti i sacrifici e le sofferenze che viviamo ogni giorno. E’ stato davvero appagante. Per me, con il ruolo di capitano, non è cambiato nulla. Ho sempre dato il 100% per la squadra.”
“Quando ho deciso di giocare per l’Italia, dopo le Olimpiadi di Pechino del 2008, ero fermamente convinto. La squadra mi piaceva tantissimo. Sentivo l’energia e la sinergia fra i giocatori anche se non avevo mai giocato nel Settebello. L’avvertivo anche dai compagni che ho avuto nel Recco e nel Sori che giocavano in nazionale. Indipendentemente dal ruolo, di giocatore, allenatore, capitano, preparatori e tutti gli altri che seguono la squadra, energia e sinergia rappresentano lo spirito del Settebello. Da capitano sono una formica come tutti gli altri giocatori. E abbiamo il nostro capo, la nostra regina, che è Alessandro Campagna. Siamo un’unica macchina. In un gruppo così non c’è spazio per qualcuno che si sente al di sopra degli altri. E questa è la chiave per costruire una grande squadra.“
Pietro Figlioli