mercoledì, Aprile 24, 2024
Rugby

La grande bellezza del rugby celebrata dal capitano ibleo Alessia Blanco.

La bellezza nel rugby. Allora sì, ecco, in pratica questo sport è meraviglioso perché allora, in sostanza… Onesta? Ci sono stata un pomeriggio a pensarci sopra, a cercare di tirare fuori scenari rugbistici spaziali per cui ne valesse la pena di scendere in campo dietro ad un pallone. Che di pallone non ha nulla. E, nella mia più schietta onestà, non mi sono capacitata di uscirmene con qualcosa che non risultasse essere una frase fatta, una minchiata colossale o un qualcosa di già sentito.

Perché in fondo, nel rugby, di bello non c’è nulla. E, il rugby, non è neanche lontanamente simile a nessuna di quelle citazioni da due soldi ripescate da Internet. Per capirlo, questo sport infame come il mondo, bisogna sporcarsene. Bisogna sporcarsi la faccia, imbrattarsi la maglia, beccarsi qualche ginocchiata dentro a una mischia. Perché, senza idealizzare troppo, il rugby è bello così, non so spiegarvi esattamente perché.

Ha quello stesso fascino di un uomo dai modi rozzi, tozzo, pelato, con la cartilagine dell’orecchio smaciullata, e che per di più puzza. Una favola insomma. E no davvero, lasciate stare, non c’è nulla di bello. Non ci sarà nulla di bello nel sentire alle vostre spalle gli sbuffi di un toro imbestialito, in rotta di collisione sulle vostre caviglie. Mentre in quel momento sai, sai per certo, che l’unica cosa che ti resta da fare è cercare di recuperare quanto più ossigeno hai a disposizione. Per dartela a gambe e schiacciare quella sottospecie di uovo deforme a meta, il prima possibile.

Non aspettatevi nulla di che. Nel cantare inni di discutibile eleganza sotto docce, il più delle volte quasi sempre gelate. Nel giocare in campi squassati, pieni di buche profonde come la Rift Valley, di sabbia e di sassi. Ma a volte, se ti va bene, puoi trovarci sopra anche un po’ d’erba, giuro. Nel tornare a casa con le ginocchia tutte aperte, sbucciate, come quando da piccolo cadevi nell’asfalto. E poi nella soddisfazione di riguardartele come cicatrici, come fossero le tue ferite di guerra.

Non c’è nulla di bello in quello che sembra essere un rituale più vecchio del tempo. La distribuzione delle maglie, che sanno ancora di coccolino (ancora per poco) e hanno un logo e un numero cucito alla meno peggio, compagne di ogni tua impresa da ultimo templare. Reliquie sacre della tua esistenza in questa terra. Ma sì dai, si scherza… forse.

Compagni, compagne. Brutti ceffi svalvolati tanto quante te. Alcuni li odierai da morire, non li sopporterai proprio, altri diventeranno la tua casa. Ma credimi, alla fine quando poi si segna una meta o si vince una partita, non ti importa neanche più che faccia abbiano: parte un abbraccio e si rompe il silenzio. Chi, dove, quando, perché, quelle sono tutte cose che non ti chiedi dentro al campo. Quindi ascoltami, andrà a finire che alla fine te li porterai tutti dietro ogni giorno, nessuno escluso eh. Compagni di squadra di una vita, allenatori, e persino avversari rompiscatole, ogni volta che qualcuno nominerà una parola ovale, dovunque ti porterà la vita, resteranno con te.

Non ci si può trovare nulla di bello in mezzo al fango. Nel tuffarsici, per la felicità di tua madre, che poi a casa ti farà la faccia nuova, per tutta quella roba che le porti ogni volta da lavare. No, decisamente niente di bello.

E’ come se non fosse neanche effettivamente uno sport. Ma un insieme di cose, case, campi, facce, placcaggi, touch, persone, spogliatoi, docce, birre, trasferte rumorose, arbitri, maul, tacchetti, ritiri, sacchetti di ghiaccio, emozioni, urla, paredenti finiti inevitabilmente per terra. E rimessi inevitabilmente in bocca, E ancora corse, pianti, compagni di squadra, famiglie… Ogni volta mi passa davanti una carrellata di immagini che sembrano non averci nulla a che fare col rugby, se pensate che questo sia solamente uno sport. E no, no che non è bello.

E’ sporco. Delle volte anche sudato e allora fa rumore, esulta. Delle altre invece è amaro e ti bagna gli occhi di lacrime che non vorresti piangere. Altre ancora poi si sta zitto, e allora ti è amico, in silenzio, e allora ti capisce e no guarda, non c’è bisogno che gli spieghi, non ti starà ad ascoltare, ti chiederà solo di venire al campo, di metterti lì pronto con la spalla e buttarne a terra quanti più riesci.

E no, se la state cercando non c’è, non c’è una bellezza in tutto questo, … dicono.

Alessia Blanco

Racconto fotografico di Maria Angela Cinardo